La debolezza umana incontra la forza della grazia
Omelia nella beatificazione di Maria Antonia Samà e Gaetana (Nuccia) Tolomeo
Considerando la figura delle due beate – Maria Antonia Samà e Nuccia Tolomeo – non ci è difficile riconoscere, nel cuore della loro imitatio Christi, un elemento comune, che ha un nome difficile, terribile: sofferenza. Vi sono entrate in modo diverso –in forme addirittura inquietanti, la beata Maria Antonia, e con un doloroso sviluppo naturale l’altra – ma ambedue in forma progressiva, in continua crescita sì da diventare, l’una e l’altra, somiglianti a Cristo, vir dolorum et sciens infirmitatem (cf. Is 53,3). Di lui – nel brano che abbiamo insieme ascoltato dalla lettera agli Ebrei – si dice che fu reso perfetto per mezzo delle sofferenze. Riflettiamo, allora, su questa espressione, giacché pure questa non ci è di facile e immediata intelligenza. Perché questo paradossale rapporto?
Di Gesù l’Autore ci dice anzitutto che è un «capo che guida alla salvezza»; aggiunge, quindi, che egli è «colui che santifica» e conclude che lo stesso non si vergogna di chiamarci «fratelli»! C’è un crescendo in questi tre titoli sicché l’uno approfondisce e spiega l’altro. Gesù è per noi una guida, ma non di quelle che ci danno semplicemente delle indicazioni, bensì uno che ci prende per mano e ci accompagna nel cammino e questo lo fa perché ci vuole bene, ci ama.
Lui, che è santo e santificatore, non si vergogna della nostra debolezza e nemmeno del nostro essere peccatori. Questa nostra condizione non lo spinge ad abbandonarci. Così, nel caso, ci comportiamo noi! Quando qualcuno ci dispiace, o ci delude, o ci offende allora prendiamo le distanze, interrompiamo i contatti, lo cancelliamo dalla nostra agenda … Gesù, al contrario, prende su di sé la sofferenza e giunge a dare la vita per noi. «Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me», scriverà, colmo di stupore e gratitudine, san Paolo (cf. Gal 2,20).
L’Autore della Lettera agli Ebrei dice: non si vergogna. La «vergogna» nel racconto della creazione dell’uomo nasce col peccato, ma Gesù è l’Innocente, perciò non si vergogna; anzi salva e santifica. Sant’Agostino spiega: «Non si vergogna di chiamarli fratelli. Queste parole cos’altro significano se non che egli si è reso partecipe della loro stessa sorte? Difatti noi non saremmo mai diventati partecipi della sua divinità se egli non si fosse reso partecipe della nostra mortalità. E proprio perché si è reso partecipe della sorte dei propri fratelli, egli poté parlare di quel grano caduto per terra, che messo a morte portò frutto abbondante» (Esposizione sul salmo 118, Disc. 16, 6: PL 37, 1546-1547).
Spiegando il nostro testo Benedetto XVI una volta disse: «il Figlio ha assunto la nostra umanità e per noi si è lasciato “educare” nel crogiuolo della sofferenza, si è lasciato trasformare da essa, come il chicco di grano che per portare frutto deve morire nella terra. Attraverso questo processo Gesù è stato “reso perfetto”, [termine che] indica il compimento di un cammino, cioè proprio il cammino di educazione e trasformazione del Figlio di Dio mediante la sofferenza, mediante la passione dolorosa» (Omelia nella solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, 3 giugno 2010). Nella medesima prospettiva di un cammino di educazione e trasformazione possiamo guardare pure alle nostre due Beate.
Con lei c’è la beata Gaetana Tolomeo, da tutti conosciuta come Nuccia. Anche la sua fu una vita colma di sofferenza, ma fu pure una vita ricolmata e ricolma d’amore. Segnata come fu sin dai primi anni di vita da una paralisi progressiva e deformante, per amore di Cristo ella trasformò la sua disabilità in apostolato per la redenzione dell’uomo. Ripetendo: Ti ringrazio Gesù di avermi crocifissa per amore, divenne ella stessa un esempio di gratitudine per la vita ricevuta. «Sono Nuccia – diceva – una debole creatura in cui si degna operare ogni giorno la Potenza di Dio». In effetti la sua vita terrena fu ricca non di eventi e opere grandiose, ma di grazia e di adesione totale al volere di Dio nella semplicità quotidiana. Due mesi prima di morire lanciò ai giovani di Sassari questo messaggio: «Ho 60 anni, tutti trascorsi su un letto; il mio corpo è contorto, in tutto devo dipendere dagli altri, ma il mio spirito è rimasto giovane. Il segreto della mia giovinezza e della mia gioia di vivere è Gesù. Alleluia».
«Conveniva che Dio rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza». Quello che Dio ha fatto nel capo lo ha fatto anche nelle membra di Lui. È questa la storia della santità: di queste due beate, ma non di loro soltanto.
Quella della santità, infatti, è la storia della forza di Dio nella debolezza umana.
Così è stato per la Vergine Maria: «Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente» (Lc 1,49); così per tutti.
La santità è, come insegna Papa Francesco, proprio l’incontro della debolezza umana con la forza della grazia (cf. Gaudete et exsultate, n. 34).
Catanzaro, Basilica dell’Immacolata, 3 ottobre 2021
Marcello Card. Semeraro