Adagiata sul fianco di un colle, dominata dalla Rocca d'Arce, in bella posizione presso lo sbocco del Valle del Liri, Arce conserva nelle ripide e strette vie del suo centro storico l'aspetto medievale. Gran parte dell'abitato moderno invece si è sviluppato lungo la sottostante via Casilina e qui la laboriosità di suoi abitanti ha concentrato molte sue attività.
In due epistole, una al fratello Quinto, l'altra all'amico Tito Pomponio Attico, Cicerone parla del territorio "Arcanum" e di una Villa Arcana, descritta e magnificata. Certo del periodo romano restano iscrizioni e alcuni reperti. Non dimentichiamo che nel territorio di Arce era sita la colonia latina di Fregellae fondata dai Romani nel 328 a.C.
Oggi è un importantissimo parco archeologico, che, con scavi scientifici a livello universitario, sta rinvenendo alla luce ed è visitabile in qualunque momento dell'anno. Nel medioevo Arce ha conosciuto vicende storiche travagliate: occupata nel Vl sec. dai Goti di Totila, guerra con i Bizantini, venne devastata in seguito dalle orde saracene.
Fu luogo strategico di notevole importanza, situato al confine tra Stato Pontificio e Regno di Napoli. Tra le sue chiese citiamo: SS. Pietro e Paolo (XVII sec.) con due torri campanarie e l'interno a croce greca; Santa Maria che conserva un crocefisso ligneo pregiato e "miracoloso"; Sant' Antonio con un magnifico portale del XII secolo.
La chiesa parrocchiale di Arce, Arcipretale e Collegiata, è dedicata ai Santi Apostoli Pietro e Paolo.
È a forma di croce greca, da un’iscrizione nell’abside apprendiamo come la chiesa fu edificata tra il 1702 e il 1744; consacrata il 17 dicembre di quell’anno dal Vescovo diocesano S.E. Mons. Antonio SPADEA.
La tradizione vuole che fosse stata costruita con il lavoro spontaneo di tutta la popolazione.
Si hanno notizie frammentarie su di un’antica chiesa dedicata al solo San Pietro e che doveva trovarsi in quel luogo.
L’attuale complesso architettonico domina maestosamente piazza Umberto I (che si trova a 245,46 metri s.l.m.); ha una superficie di 540 mq ed una cupola alta 24 metri, una capienza di 1500-1800 persone; è di stile barocco con molti stucchi e dipinti.
Di epoca più antica sono i dipinti del secondo cornicione, gli altri furono effettuati con i restauri generali del 1910, quando era parroco Don Giuseppe MARROCCO e Vescovo diocesano S.E. Mons. Antonio Maria JANNOTTA.Il pittore che realizzò queste opere fu Edoardo RIGHI con l’aiuto di decoratori locali, fra cui Eleuterio PELILLO e di stuccatori fatti venire appositamente da Firenze.
L’altare successivo è quello dedicato al Sacro Cuore di Gesù, fino alla metà del secolo era dedicato al Santissimo Sacramento, l’attuale statua a sostituito una pala raffigurante l’ultima cena negli anni ’50; sono da notare i due angeli ai lati dello stesso con le seguenti frasi: “VENITE ET COMEDITE PANEM MEUM – Prov. 9-5” cioè “Venite e mangiate il mio pane”; “SI QUIS MANDUCAVERIT EX HOC PANE VIVET IN ATERNUM – Num. 90-10” cioè “Chi mangia di questo pane vivrà in eterno” (Giovanni VI, 58), in questo altare si celebravano i matrimoni e vi si conservava l’olio degli infermi in un tabernacolo nella parete. Nei due rosoni sovrapposti si possono ammirare due scene, in stucco, del Nuovo Testamento. Poste nella parte superiore dell’altare ci sono due statue la Vigilanza e il Magistero. Altre particolarità di quest’altare sono le due mensole semicircolari sorrette da figure maschili a mezzo busto sui lati; nel paliotto centrale due scene dell’Antico Testamento. Belli anche gli stucchi delle pareti laterali, ed in particolare quello sopra il tabernacolo dell’olio degli infermi che rappresenta un Santo che entra in un paese da una torre (o chiesa) esterna; l’altro nella parete destra, rappresenta la morte dello stesso.
Proseguendo si incontra una lapide funeraria, l’unica, datata 1859, essa ci fa capire come nella metà dell’800 i morti si seppellissero ancora nella chiesa. Continuando la nostra visita incontriamo due amboni in marmo, quest’opera offerta dal Geom. SERA Don Carlo in memoria della consorte defunta N.D. Maria BARTOLOMEI, furono realizzati nel 1965 dov’erano gli altari dell’Immacolata e di San Giuseppe da una ditta di Ceprano. Il primo altare, cioè quello dell’Immacolata, all’epoca della costruzione della chiesa, era di patronato del canonico Germani, come si può notare vi sono due stucchi al lato di esso che rappresentano lo stemma della famiglia del canonico, l’attuale tela raffigurante l’Immacolata è stata realizzata dall’artista locale Alberto PELAGALLI ed ha sostituito quella precedente che è stata rubata che rappresentava l’Immacolata opera dell’artista locale Raffaele QUATTRUCCI che era una copia del quadro del MURILLO. Nel cartiglio è contenuta la seguente iscrizione: “IN CONCEPTIONE TUA VIRGO IMMACOLATA FUISTI ORA PRO NOBIS PATREM CUIUS FILIUM JESU PEPERISTI” cioè “Nel tuo concepimento fosti Vergine Immacolata prega per noi il Padre di cui generasti il Figlio Gesù”. L’altro, cioè quello di San Giuseppe agli inizi dell’800 era di patronato della famiglia PESCOSOLIDO; la pala rappresenta la Sacra Famiglia con San Giovanni Battista. Nel rosone che sovrasta l’altare, a stucco, è raffigurato San Vincenzo Ferreri nel cartiglio vi è la seguente iscrizione: “CUM ESSET DESPONSATA MATER JESU MARIA JOSEPH” cioè “Essendo Maria la Madre di Gesù promessa in matrimonio a Giuseppe” (ufficio votivo di S. Giuseppe sposo della B.V.M., Antifona I).
Passando ad ammirare l’altare maggiore possiamo dire che la parte anteriore è stata costruita con pregevole marmo policromo dalla ditta Rubino di Napoli nel 1949; da ammirare il bassorilievo del paliotto raffigurante l’ultima cena, agli inizi degli anni ’70, per adattarlo alla nuova liturgia, fu costruita la parte anteriore (mensa) e la balaustra. Celato dall’altare vi è il coro in legno, la semplicità dello stile lo fa apprezzare per la sua eleganza. Alle pareti di lato sono rappresentati: a sinistra, la consegna delle chiavi del paradiso a San Pietro (Mt. XVI, 17-19) e a destra la conversazione di San Paolo sulla strada di Damasco (Atti IX, 1-9).
Nel cielo, sopra questo braccio, l’Eterno Padre nella creazione del mondo, negli angoli: la Giustizia, la Pace, la Carità e la Verità; nelle lunette i profeti Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele. Nel catino dell’abside vediamo in un coro angelico San Pietro e San Paolo con sotto l’iscrizione: “PETRUS ET PAULUS IPSI NON DOCUERUNT LEGEM TUAM DOMINE” cioè “Pietro e Paolo quegli stessi che insegnarono a noi la tua legge o Signore”. Qui è anche riprodotto lo stemma del Comune di Arce e vi è l’iscrizione relativa al restauro della chiesa; che attualmente non è visibile a causa dell’installazione del nuovo organo da parte della ditta BEVILACQUA di Torre dei Nolfi (AQ), in occasione del 25° anniversario di vita sacerdotale di Don. Antonio MARCIANO, qui vi è l’iscrizione: “LAUDATE DEUM CHORDIS ET ORGANO” cioè “lodate Dio con le corde e con l’organo”.
Il sesto altare è quello dedicato a San Rocco, comprotettore della città di Arce. Anch’esso ha subito dei restauri nel 1956 con l’offerta di tutta la popolazione, vi è la statua del santo, non ha cartiglio ma vi è ugualmente l’iscrizione che è la seguente: “PESTE LABORANTE ROCHE PATRONUS ERIS” cioè “mentre imperversa la peste o Rocco sarai Patrono”, come è noto protegge dalla peste. Sovrasta l’altare una piccola tela raffigurante l’Assunzione della Madonna al Cielo.
Il settimo ed ultimo altare è quello dedicato alla Madonna di Pompei; questo fino alla metà di questo secolo era denominato del Crocifisso e/o della Morte perché vi si celebravano i funerali. Il rosone che sovrasta l’altare rappresenta la Madonna Addolorata, nel cartiglio l’iscrizione: “CUJUS ANIMA GEMENTE CONTRISTATA ET DOLENTE PERTRANSIVIT GLAUDIUS” cioè “una spada a Te gemente tenerissima e dolente trapassava l’anima”; sovrasta l’intero altare uno stemma turrito con il monogramma “PAX”. A quest’altare venne cambiata denominazione da altare del Crocifisso, nome dovuto alla pala raffigurante un Crocifisso, a Madonna di Pompei perché vi si tenevano i “sabati” a Lei dedicati, ed essendo la tela logora e abolita la funzione principale dell’altare, cioè la celebrazione die funerali nel 1956 fu realizzato il mosaico e l’altare in marmo come appare attualmente, il quadro della Madonna è opera dell’artista locale Marco D’EMILIA, ed ha sostituito la stampa rubata. Il cielo è affrescato con l’offerta di Giuda il Maccabeo al tempio di Gerusalemme perché si offrisse un sacrificio per i suoi soldati morti (II Maccabeo XII, 43). Proseguendo si passa vicino alla nicchia contenente le statue dell’Addolorata e dell’Immacolata, passando oltre si ammira il grande Crocifisso; il cielo è affrescato con degli angeli ovali che contengono angeli con i simboli della passione. Tornati al centro della chiesa e voltandoci a guardare sopra l’ingresso principale possiamo ammirare l’organo antico, opera del celebre organaro CATARINOZZI e l’affresco nel cielo del braccio che rappresenta il trasporto dell’arca dell’alleanza intorno alle mura di Gerico, che con squilli di trombe fecero cadere le mura della città (Giosuè VI, 1-27).
I quadri della Via Crucis sono stati messi l’8 marzo 1957.
La pavimentazione, in pietra “perlato d’Ausonia”, è opera della ditta IACOBUCCI di Frosinone.
Le attuali acquasantiere hanno sostituito quelle rubate nel 1986, le quali erano state donate da Olga SANTORO per lascito di Alfonso TRONCONI.
SANT'ELEUTERIO PELLEGRINO
Sant’Eleuterio nacque a Silions in Bretagna, nella seconda metà del VII secolo, dalla famiglia apprese i primi insegnamenti cristiani.
Egli cresceva pieno di vita, di gentilezza e di altruismo con una semplicità che gli veniva dal cuore.
Ancora molto giovane rimase colpito dagli insegnamenti dei monaci benedettini mandati dal Papa Gregorio I per evangelizzare quelle terre.
Ricevette il battesimo ed aderì con slancio ed ardore alla fede e alla dottrina cristiana.
Il suo carattere era affabile ma celava una più autentica virtù di forza, una volontà senza incrinature, che Lo avrebbe avvicinato sempre di più all’Altissimo.
Dal padre imparò sicuramente l’antica arte delle armi, che sapeva condurre con intelligenza e profitto, tuttavia preferiva condurre una vita spensierata in compagnia degli amici.
Mai però usava parole volgari, mai commetteva villanie.
Al padre che si lamentava della spensieratezza del figlio la madre rispondeva “vedrai, Eleuterio, non si perderà: ama tanto il Signore ed è troppo buono!”.
La bontà, l’amore erano la sua caratteristica, il fondamento della sua personalità.
Aveva appena venti anni; la vita era tutto uno sbocciare di sogni e di speranza. La sua intima gioia e la sua ardita consapevolezza si manifestavano nella irrequietezza gaudiosa, nel portamento aitante.
Egli ardiva di vivere e di lottare per un grande ideale al servizio di Cristo. Ecco l’occasione propizia: il viaggio di alcuni suoi compagni in Terra Santa.
Essi decidono di partire per suggellare la loro conversione, il Sacro Legno della Croce, dopo alterne vicende, è stato riportato a Gerusalemme.
Essi vogliono partire e venerare la tomba di Cristo e conoscere i luoghi che avevano visto la predicazione, i miracoli e la Passione del Signore.
Eleuterio è ardente ed entusiasta del viaggio che gli si prospetta, i Luoghi Santi sono di nuovo nelle mani della cristianità, la via per Gerusalemme è libera; finalmente il suo sogno si sta per realizzare.
La madre spaventata non vuole che parta, ma Lui ricco di Spirito Santo decide di partire, abbandona tutto e nella pienezza del suo spirito giovanile parte dalla sua casa per la sua meta: Gerusalemme.
Eleuterio si prepara per affrontare il viaggio, indossato un semplice saio, e preso un ampio mantello, senza maniche in modo che gli possa servire sia da riparo per la pioggia che da coperta, mette un cappello a larga tesa, per proteggersi il viso dal sole e per impedire alla pioggia di scendere lungo la schiena, prende il bastone, servirà lungo il viaggio ad offrire sicuro appoggio sulle montagne e nell’attraversamento dei fiumi, parte per la sua meta.
Il nostro Eleuterio è impaziente di vedere la Santa Gerusalemme e la Terra Promessa.
Si incammina, lascia la sua terra e attraversa il mare, va in Francia, segue la via Domitia, supera le Alpi al passo del Moncesio.
Giunto in Italia, da Torino si diresse verso oriente sino ad Aquilea seguendo un tratto della via Postumia, toccando Tortona, Piacenza, Cremona, Verona e Vicenza da qui finalmente giunge a Venezia.
Qui si imbarca su una delle navi dirette in Palestina.
La nave segue il tratto della costa dalmata passando dai depositi mercantili veneziani in Grecia, a Rodi e a Cipro, fino ad arrivare a Giaffa, sulla costa asiatica, da qui poi a piedi va a Gerusalemme.
Il viaggio durò circa 40 giorni, le difficoltà incontrate vennero affrontate e superate con la fede e la preghiera.
Finalmente giungono in Terra Santa; appena avvistata la costa della Palestina Eleuterio e i suoi compagni ringraziano il Signore che ha concesso loro di vedere la Santa Gerusalemme e la Terra Promessa.
Visitò con grande trasporto la città di Gerusalemme e i luoghi Santi; girò per la Galilea e pregò sulla terra che Cristo aveva calpestato con i Suoi Piedi e dove si manifestò in Corpo e Spirito.
Pregò con fervore sul Santo Sepolcro, ormai liberato dagli infedeli, il Cenacolo ed il Golgota.
Quanto tempo si sia fermato nei luoghi santi non ci è dato a sapere ma, quasi certamente, dopo essersi recato a Nazareth e rinnovato il suo “fiat” iniziò il suo ritorno verso casa non prima, però, di aver visitato altre località sedi di Santuari e di avvenimenti legati al cammino di Cristo e dei Suoi Apostoli o comunque connessi alla professione di fede.
Decise che giunto infine in Italia prima di dirigersi verso Roma si sarebbe recato, per trascorrere ancora un pò di tempo in solitudine e preghiera, sui luoghi dove apparve l’Arcangelo Michele: il monte Gargano
Partito da Nazareth, si diresse verso Antiochia, la città da dove partirono gli Apostoli per evangelizzare il mondo, da qui a Tarso, città che diede i natali a San Paolo, proseguì verso Costantinopoli dove poté venerare la corona di spine e il perizoma di Gesù, il suo viaggio lo portò a Tessalonica, infine si diresse a Durazzo dove si imbarcò per raggiungere Otranto.
Giunto così al porto di Otranto, Eleuterio si diresse verso Brindisi e da qui sul Gargano fino a salire sul sacro monte.
Qui al di sotto di un unico masso roccioso c’è la chiesa di San Michele, che, come è noto, è stata Consacrata proprio da Lui.
In questo luogo, trovò rifugio in una grotta ed in digiuno, solitudine e preghiera trascorse le sue giornate.
Dopo del tempo, certamente dopo la festa dell’Arcangelo, l’8 maggio, decise di riprendere il viaggio verso casa non senza però essere passato per Roma e aver pregato sulla tomba del Principe degli Apostoli.
La strada che si prospettava era lunga e faticosa.
Eleuterio, ed i suoi compagni, si misero in viaggio verso Roma, seguirono la strada pedegarganica che passava per la valle di Carbonara, da qui sull’altipiano di San Giovanni Rotondo, il pantano di S. Egidio, S. Matteo, S. Marco in Lamis e da qui S. Severo.
Da quest’ultima località la strada si immetteva sulla via Litoranea passando per la contrada Branca, dove sorge tuttora un casale dedicato a Sant’Eleuterio, attraversava il Candelaro prendendo verso nord-ovest per Civitate e seguendo la via Traiana verso Benevento e Montecassino.
La tradizione ci dice che furono non meno di sette questi amici che in stretta concomitanza raggiunsero la Valle del Liri.
Il viaggio fu sicuramente lungo e faticoso, pieno di insidie e di pericoli; i compagni che lo avevano accompagnato durante il viaggio muiono lungo la strada, dopo circa venti giorni il giovane Eleuterio sopraffatto dalla fatica, dalle privazioni, ma felice per aver espiato i propri peccati, giunge ad Arce, è il 28 maggio.
Eleuterio decide di fermarsi ad Arce prima di passare nello Stato Pontificio.
Non abbiamo una cronaca con i particolari di come avvenne, visto che i pellegrini non erano seguiti da cronisti, ma la tradizione orale ci racconta che Eleuterio aspettando l’alba per passare nello Stato Pontificio trovandosi al confine, vede che lì vicino al ponte c’è una locanda, è notte, bussa alla locanda e l’oste vedendolo sporco e senza soldi gli rifiuta l’ospitalità, gli aizza contro i cani, lo scaccia.
Ormai stanco, sente che presto sarà nella gloria degli Angeli, trova un riparo di fortuna nella vicina Campolato. Qui il Signore lo chiama a sé.
Gli abitanti del luogo lo trovano all’alba del 29 maggio con i cani, che l’oste gli aveva aizzato contro, a guardia e con un groviglio di serpenti ai piedi.
Immediatamente viene seppellito, sulla sua tomba eretta una chiesa; è invocato contro il morso dei cani rabbiosi e degli animali velenosi.
La fama della sua santità non ha confini e da ogni parte vengono a chiedergli grazie, che Lui ricolma ancora oggi dal cielo.
* * *
Leggendario è quindi il nostro Eleuterio, le varie versioni della sua vita sono state tutte tramandate oralmente nel corso dei secoli e qualche volta ci appaiono contraddittorie perché arricchite da una buona dose di fantasia popolare. Nessun documento, infatti, esiste per fissare l’epoca in cui egli sia vissuto.
Quella precedentemente narrata è una delle versioni della vita. È probabile che al Santo Pellegrino - sconosciuto agli arcesi - sia stato attribuito il nome Eleuterio traendolo, forse dalla località ove fu rinvenuto il suo corpo: sappiamo infatti, che nella zona vi era una villa di Quinto Cicerone denominata «Laterium». Nel dialetto arcese il nome del Santo viene pronunziato «Lautèrie», che appare foneticamente molto vicino al termine «Laterium».
Le scarse notizie storiche fanno collocare l’origine del culto nella seconda metà del XVI secolo. Il primo accenno relativo all’esistenza del santuario risale al 1564, quando tutte le chiese della diocesi d’Aquino (di cui il nostro paese faceva parte) furono tassate per l’erezione del seminario. In tale occasione il santuario fu esentato dal pagamento perché in costruzione. La data d’ultimazione dei lavori potrebbe essere 1582 incisa sul portale. Della fine del XVI secolo sono anche le raffigurazioni pittoriche note. In tutte Sant’Eleuterio è riconoscibile dall’abito di pellegrino che indossa, dai due cani alla catena e dal groviglio di serpenti ai suoi piedi: motivi questi che caratterizzano tutte le altre immagini fino ai giorni nostri. Il documento iconografico più antico è databile intorno al 1590 riguarda un’opera attribuita a Marco Mazzaroppi ed è visibile in copia nel santuario; di un decennio successivo è il dipinto custodito a Ferentino nella chiesa extra moenia di S. Maria delle Grazie più nota come San Rocco; la terza tela è quella posta sull’altare dedicato al Santo nella chiesa parrocchiale, essa risale alla prima metà del XVIII secolo. In entrambe le tele arcesi si nota, alle spalle del Santo, un paesaggio nel quale emergono elementi architettonici effettivamente presenti nell’area del santuario. Se nella prima è visibile un nucleo abitato, nell’altra sono ben evidenti i luoghi canonici del Santo: il ponte sul Liri e la torre di Campolato. Quest’ultima ben visibile in un foglio devozionale della fine del XVII secolo. Attualmente sono note tre statuedel Santo: una lignea risalente al 1830 circa, conservata nella cattedrale di Aquino; due in cartapesta rispettivamente custodite presso il santuario e la parrocchiale di Arce.
Altre due iconeche rappresentano il Santo si trovano nella chiesa parrocchiale di Arce, infatti, ai lati dell’altare del Sacro Cuore vi sono due stucchi a rilievo, il primo a sinistra si suppone rappresenti l’arrivo di S. Eleuterio a Gerusalemme, è ben visibile la mezza luna, simbolo dell’ISLAM, una torre alle spalle, la sua casa, il mare e le mura della città Santa, il secondo a destra la sua morte, qui si vede il nostro Santo accolto dagli angeli in paradiso.
La devozione per S. Eleuterio è rivolta essenzialmente alla protezione e alla guarigione dai morsi di cani e di serpenti. Intorno alla sua figura taumaturgica, proprio perché relativamente «recente» sono confluiti non soltanto rituali e usanze ma anche espressioni e modi di dire già presenti per altri Santi con analogo patronato ma di più antica venerazione. Comunque a tutte le leggende è comune la circostanza del rinvenimento del cilicio in ferro indosso al pellegrino. Fuso in epoca imprecisata, se ne ricavarono due chiavi: una rivestita d’argento, rimase ad Arce, l’altra fu destinata alla sede vescovile d’Aquino, in seguito vedremo l’esistenza di altre chiavi non citate nella tradizione arcese ma comunque riferite al culto del nostro S. Eleuterio.
Per quanto riguarda i modi di dire legati al Santo ne riportiamo alcuni dei più comuni: «N’n vid’ la serpa e ‘nvoche Sant’ Lautèrie» si usa rivolgendosi a chi si spaventa prima di un pericolo reale mentre «Và a bacia la chiav’ d’ Sant’ Lautèrie» si usa con chiunque dimostri una fame «arrabiata».
Le reliquie del santo sono conservate in un'urna sotto l'altare a lui dedicato nella chiesa parrocchiale dei Santi Apostoli Pietro e Paolo di Arce.
La memoria liturgica ricorre il 29 maggio, quando la statua del Santo Patrono, insieme a quella di santa Rita, viene portata in solenne processione per le vie del centro storico del comune.
Per tale occasione, la domenica successiva al 5 maggio, giorno che la popolazione arcese dedica al digiuno, le statue di sant'Eleuterio e di santa Rita da Cascia vengono traslate in solenne processione, in un tripudio di canti e fuochi d'artificio, lungo un percorso di quattro chilometri, dal Santuario dedicato al Santo alla Chiesa parrocchiale dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. Qui restano sino alla metà di giugno, quando sempre in solenne processione, vengono riportate nel Santuario.
Altra festività legata al santo è il 3 agosto; qui i festeggiamenti si svolgono nel Santuario, situato in località sant'Eleuterio.
La chiesa-santuario è dedicata a Sant’Eleuterio Pellegrinoe Confessore, Patrono della città; essa si trova quasi al confine con Fontana Liri nei pressi della torre detta “del Pedaggio” o di “S. Eleuterio". La costruzione attuale risulta molto modificata da quella che doveva essere la costruzione originaria, si noti infatti nella parte posteriore dell’edificio la torre campanaria, a forma quadrangolare, più simile ad una torre di difesa che ad una campanaria.
Le prime notizie dell’esistenza di questa chiesa le troviamo già a partire dal 1574, allorché veniva costruito il seminario vescovile di Aquino, questa chiesa non venne sottoposta ad alcuna tassazione perché si trovava in costruzione. Notizie successive ci fanno sapere di una controversia tra l’Università di Arce (ovvero l’allora Comune) ed il clero della Parrocchia di San Pietro (l’attuale SS. AA. Pietro e Paolo), entrambi sostenevano di essere i proprietari dell’edificio e dei beni legati alla chiesa; notizia certa è comunque che nel 1603 essa apparteneva all’Università.
Una testimonianza ben precisa sull’importanza del culto di questo Santo l’apprendiamo nel libro “Il Ceprano ravvivato”, quando l’autore descrivendo il corso del fiume Liri arrivato ad Arce afferma: “…… e di Capo Lato, hoggi di S. Eleuterio Heremita, per la vicinanza di un suo Tempio notabile non meno per la sua deuozione, che per la ricchezza, e abondanza de voti; che si fa ammirare da tutti li riguardanti, oltre che pre risiedervi il suo benedetto corpo sotto dell’altare maggiore, apre la strada ad ogni nazione di concorrervi; li cittadini naturali di Arce, e le speranze, e se vogliamo rapportare il vero, non so se vi fù mai tepio maggiore à quello per la diuotione ……”; questa descrizione ci fa comprendere quale importanza abbia avuto questo santuario nel corso degli anni.
Nel ‘900 la chiesa ha subito l’ultimo restauro ed è stata ampliata la casa canonica.
La chiesa ha tre navate di cui una maggiore centrale e due più piccole laterali, la struttura statica dell’edificio è buona, come detto questa chiesa è dedicata la Protettore della città, infatti, nel presbiterio è esposta una copia fotografica della tela raffigurante il Santo opera del pittore cassinate Marco Marzaroppi .
Come detto la chiesa ha due navate minori, al termine delle stesse vi sono due piccoli altari non più utilizzati i quali hanno come pala degli affreschi su quello di destra è raffigurato San Rocco, comprotettore della città, su quello di sinistra è raffigurata la Madonna del Carmine e San Giuseppe.
La chiesa originariamente aveva 10 grandi finestre ma nei restauri del 1982 due di esse furono richiuse per così diventare le nicchie dove vengono conservate le statue di Sant’Eleuterio e Santa Rita da Cascia. Di recente sono state istallate delle vetrate artistiche nelle finestre sopra la porta, raffigurante la Santissima Trinità ed una nella finestra dell’abside raffigurante lo Spirito Santo. Quest’anno (1998) sono state sostituite le finestre della chiesa con delle vetrate istoriate che raffigurano i misteri principali della Redenzione.
La parte più interessante dell’intero edificio è comunque l’abside in quanto il materiale usato per costruire sia la mensa sia il leggio sono dei reperti archeologici di epoca romana rinvenuti nei pressi della chiesa. Nell’abside come in sacrestia sono ben visibile resti di affreschi della chiesa originaria, sono databili intorno al XIII – XIV secolo. Concludendo nell’abside, durante i lavori di pavimentazione è stata trovata una piccola nicchia in pietra, oggi visibile attraverso una grata, che doveva contenere i resti mortali di Sant’Eleuterio.
Festa 3 agosto 2020 |