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Uno «spirito nuovo» per l'incontro tra le due Chiese ...

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Un articolo di padre Pani su «La Civiltà Cattolica» rilancia le parole pronunciate da Francesco davanti al patriarca Bartolomeo a Istanbul: uno «spirito nuovo» per l'incontro tra le due Chiese

ANDREA TORNIELLICittà del Vaticano
 
 
 
Le parole pronunciate da Papa Francesco lo scorso novembre a Istanbul, in presenza del patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo rilanciano l'approccio che si ebbe nel concilio di Firenze, «un modo nuovo e originale per giungere alla piena unità fra le Chiese».  Lo afferma l'ultimo numero de «La Civiltà Cattolica», l'autorevole rivista dei gesuiti le cui bozze sono vagliate dalla Segreteria di Stato vaticana, in un articolo a firma di padre Giancarlo Pani intitolato «Per giungere alla piena unità».
 
 
«La Civiltà Cattolica» ricorda che nella Divina Liturgia a Istanbul Francesco ha formulato una proposta di unione destinata ad avere un peso nei rapporti ecumenici con l’ortodossia. La Chiesa cattolica, «per giungere alla meta sospirata della piena unità... non intende imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune». Inoltre, essa è pronta «a cercare insieme, alla luce dell’insegnamento della Scrittura e dell’esperienza del primo millennio, le modalità con le quali garantire la necessaria unità della Chiesa nelle attuali circostanze». Infine termina: «L’unica cosa che la Chiesa cattolica desidera e che io ricerco come Vescovo di Roma, “la Chiesa che presiede nella carità”, è la comunione con le Chiese ortodosse».
 
 
Il Papa - fa notare l'autore dell'articolo - ha ripreso una mozione fatta diversi anni fa, nel 1982, dall’allora cardinale Joseph Ratzinger: «Roma non deve richiedere dall’Oriente, riguardo alla dottrina del primato, più di quanto è stato formulato e vissuto nel primo millennio. Quando il patriarca Athenagora..., in occasione della visita del Papa... lo ha designato come successore di san Pietro, come il più stimato tra noi, come colui che presiede nella carità, questo grande leader della chiesa stava esprimendo il contenuto ecclesiale della dottrina del primato così come era conosciuto nel primo millennio. Roma non ha bisogno di chiedere di più».
 
 
Le Chiese orientali, prima dello scisma del 1054, e dunque nel primo millennio, riconoscevano infatti il primato di Roma come la Chiesa che «presiede nella carità». Nel secondo millennio, poi, la Chiesa latina ha ampliato i poteri del Papa con una giurisdizione su tutte le Chiese cattoliche. Francesco ha anche precisato che la comunione «non significa né sottomissione l’uno dell’altro, né assorbimento, ma piuttosto accoglienza di tutti i doni che Dio ha dato a ciascuno per manifestare al mondo intero il grande mistero della salvezza realizzato da Cristo Signore per mezzo dello Spirito Santo»
 
 
Sia il Papa sia Bartolomeo hanno poi firmato una dichiarazione congiunta, in cui si esprime «la profonda gratitudine a Dio per il dono di questo nuovo incontro, che ci consente, in presenza dei membri del Santo Sinodo, del clero e dei fedeli del Patriarcato Ecumenico, di celebrare insieme la festa di Sant’Andrea... Il nostro ricordo degli Apostoli, che proclamarono la buona novella del Vangelo al mondo, attraverso la loro predicazione e la testimonianza del martirio, rafforza in noi il desiderio di continuare a camminare insieme al fine di superare, con amore e fiducia, gli ostacoli che ci dividono... Esprimiamo la nostra sincera e ferma intenzione, in obbedienza alla volontà di nostro Signore Gesù Cristo, di intensificare i nostri sforzi per la promozione della piena unità tra tutti i cristiani e soprattutto tra cattolici e ortodossi». In tal modo, fa notare «La Civiltà Cattolica», Papa Francesco ha ripreso un’antica formula di unione che era stata sancita, nel 1439, al Concilio di Firenze.
 
A Firenze il confronto più acceso aveva riguardato il problema della processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio: ex Patre per Filium, oppure ex Patre Filioque? Le due formule sono presenti sia presso i Padri orientali sia presso quelli occidentali. La polemica, piuttosto vivace, si era conclusa con un compromesso: va rispettata la libertà dei greci, che non sono tenuti a introdurre nel Credo il Filioque, ma essi devono riconoscere ai latini l’ortodossia dell’aggiunta.
 
 
Il punto più controverso rimaneva la dottrina sul primato del Papa. I greci sono disposti a riconoscere la Sede romana come la prima della pentarchia (cioè delle cinque più antiche sedi patriarcali), ma pretendevano una limitazione dei poteri del papato attraverso il riconoscimento dei diritti degli altri patriarchi: «Definiamo che la santa sede apostolica e il romano pontefice hanno il primato su tutto l’universo; che lo stesso romano pontefice è il successore del beato Pietro, principe degli apostoli, ed è autentico vicario di Cristo, capo di tutta la Chiesa, padre e dottore di tutti i cristiani; che nostro Signore Gesù Cristo ha trasmesso in lui, nella persona del beato Pietro, il pieno potere di pascere, reggere e governare la Chiesa universale, come è attestato anche negli atti dei concili ecumenici e nei sacri canoni»
 
 
«L’ultima aggiunta - scrive padre Pani - è interpretata dai latini come esplicativa, dai greci invece come restrittiva. Si stabilisce poi un ordine tra i cinque patriarchi, ma non si dice in quale relazione stiano tra loro e in che modo essi si limitino. In particolare, non si fa derivare il potere dei patriarchi dalla plenitudo potestatis di Roma, come è detto nella formula di unione del II Concilio di Lione. Per i latini, la dichiarazione sul Papa è una enunciazione dogmatica, mentre l’aggiunta finale è una venerabile tradizione. Per i greci, al contrario, il Papa viene riconosciuto come il capo della pentarchia, mentre la precisazione "come è attestato anche negli atti dei concili ecumenici e nei sacri canoni"è una reale limitazione del primato. L’opposizione dei greci all’inserimento del Filioque nel Credo deriva appunto dal principio che il Papa non possa legiferare su questioni comuni a tutti i cristiani senza consultare gli altri patriarcati».
 
 
Il 6 luglio 1439 si giunge così al decreto di unione «Laetentur caeli», che è di notevole interesse non tanto per le conseguenze storiche quanto, osserva «La Civiltà Cattolica» per i princìpi teologici sottesi. Il decreto segna l’apice del Concilio: l’ultimo e più importante tentativo di unire le due Chiese separate di Occidente e di Oriente, coinvolgendo tutti gli orientali (greci, armeni, ruteni, caldei e nestoriani). L’unificazione viene firmata, anche se poi non si concretizza perché, essendo stata opera di teologi, ha avuto vita breve: non è stata compresa e riconosciuta dal clero, dai legati greci, e soprattutto dal popolo della capitale. Al ritorno a Costantinopoli, i legati non hanno avuto nemmeno il coraggio di annunciare che l’unione era stata siglata.
 
 
«Eppure il decreto conciliare - osserva padre Pani - conserva il valore delle definizioni teologiche e dei princìpi dottrinali per quanti desiderano davvero l’unione. Di fatto ha preparato il terreno per alcune unioni ecclesiastiche nei secoli successivi, in particolare per la riunificazione con Roma della Chiesa rutena nel 1596 e di quella rumena nel 1700. Il significato dell’unione siglata a Firenze è quindi rilevante. Si tratta infatti di una riunificazione fra la Chiesa latina e quella greca sulla base di una parità e di una uguaglianza, e non di un ritorno alla "Chiesa madre"». Il Concilio infatti abbatte le separazioni con un accordo sui punti controversi, dove si riconoscono la varietà dei riti e delle formule liturgiche, la parità delle strutture ecclesiali e giurisdizionali. «L’unione perciò rappresenta un modello emblematico per la storia del cristianesimo, perché sa riconoscere il valore paritario delle due istituzioni. Si tratta, in qualche modo, di un "ecumenismo ante litteram"». Al punto che nel 1984 la Commissione congiunta Cattolica Romana ed Evangelica Luterana, commentando l’unione del Concilio di Firenze, l'ha definita «un fatto nuovo nella storia».
 
In una nota dell'articolo, che riprende un brano tratto da un colloquio internazionale sui concili, si legge: «Nell’unione realizzata al concilio di Firenze fra la Chiesa latina e quella bizantina non avvenne una fusione, giacché ogni Chiesa conservava intatta, indipendentemente dall’unità nella fede, la propria tradizione liturgica, canonica e teologica. Tale fede comune poteva esprimersi in formulazioni differenti (per esempio, riguardo alla processione dello Spirito Santo) e tollerare anche differenze disciplinari (per esempio, il passaggio a nuove nozze dei coniugi separati, tollerato anche al concilio di Trento per i greci, non per i latini). Anche se il tentativo di Firenze è fallito, gli impulsi dati da esso non sono rimasti senza risultato. Hanno determinato il fatto che la Chiesa cattolica non può più essere identificata per la sua latinità. Secondo il Concilio Vaticano II ormai vale il modello delle Chiese sorelle, un modello ispirato ai rapporti esistenti nel primo millennio» («L’unità davanti a noi», in Enchiridion Oecumenicum. I.Dialoghi internazionali 1931-1984, Bologna, Edb, 1986, 768).
 
La visita di Francesco in Turchia dello scorso novembre, secondo «La Civiltà Cattolica» ha riportato alla ribalta la formula e l’intenzione del Concilio di Firenze. Nonostante si sia concluso allora con un nulla di fatto, «il decreto Laetentur caeli ha un significato storico che è ancora attuale nell’ecumenismo: un modo nuovo e originale per giungere alla piena unità fra le Chiese».

FONTE: vaticaninsiderlastampa

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